La Dialectical Behavioral Therapy (DBT) è un trattamento rivolto al Disturbo Borderline di Personalità (DBP) e sviluppato da Marsha Linehan all’inizio degli anni ’90.
Il metodo poggia le basi su principi cognitivo-comportamentali e ha dimostrato, confrontato con gruppi di controllo1-4, efficacia nella riduzione dei sintomi, dei ricoveri ospedalieri, del drop out e degli episodi relativi al suicidio, oltre che nell’incremento del funzionamento psicosociale.
Secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5th Edition (DSM-5), il DBP è un disturbo cronico caratterizzato da instabilità affettiva e relazionale, disturbo dell’identità, frenetici tentativi di evitare l’abbandono, comportamenti impulsivi e pericolosi, autolesionismo, tentativi di suicidio, difficoltà nella regolazione della rabbia, senso di vuoto, pensieri paranoidi correlati allo stress e dissociazione.
L’eziopatogenesi del disturbo chiama in causa, secondo una concezione biopsicosociale, fattori innati (temperamentali, personologici), fattori psicologici (esperienze traumatiche precoci, stile di attaccamento) e fattori sociali.
Secondo Linehan, la disfunzione pervasiva del sistema di regolazione emotiva rappresenta il nucleo del disturbo, che si strutturerebbe in relazione ad alcuni fattori sia personali che ambientali: vulnerabilità emotiva, elevata affettività sia positiva che negativa, impulsività, ambiente famigliare invalidante (atteggiamento dissintono e avversivo dei genitori nei confronti del soggetto).
La DBT è un intervento integrato: psicoterapia individuale, training di gruppo, consulto telefonico con un operatore formato e, per il terapeuta stesso, condivisione del caso clinico nell’ambito di un team.
Obiettivo del trattamento è l’acquisizione di abilità comportamentali mirate alla riduzione dell’impatto dei sintomi tipici del disturbo. Tra le abilità oggetto del trattamento troviamo la mindfulness, l’efficacia interpersonale, l’autoregolazione emotiva e l’abilità di gestione della crisi.
Il termine “dialectical”, infatti, fa riferimento ad una visione dialettica della realtà, si declina nel contesto terapeutico come integrazione tra accettazione e cambiamento, competenze preziose da padroneggiare per ottenere un miglioramento clinico.
La terapia psicofarmacologica viene generalmente somministrata come trattamento aggiuntivo per il DBP, anche per le frequenti comorbilità in ambito psichiatrico.
Il training di gruppo prevede incontri a cadenza settimanale, generalmente con programmi semestrali.
Tra le abilità che vengono insegnate ed esercitate, troviamo la regolazione delle emozioni e la gestione degli episodi critici.
Il paziente impara, in termini “dialettici”, vale a dire in modo flessibile e adattabile alle circostanze, sia la sperimentazione della sofferenza e del disagio nelle loro note percettive, avvertite senza giudizio e mirando a un’assenza di reazione sul versante motorio, sia ad applicare strategie di regolazione emotiva come sviluppo di fronteggiamento delle situazioni critiche.
Tali abilità comportamentali permettono da un lato di attenuare l’impatto dell’emotività negativa (rabbia, paura), dall’altro di prevenire conseguenze perniciose (autolesionismo, eterolesionismo, rottura di relazioni interpersonali, episodi depressivi, tentativi di suicidio, etc.).
Tra le strategie proposte per fronteggiare crisi emotive estreme, vi sono le cosiddette abilità “TIPP”, acronimo per “Temperatura, esercizio fisico Intenso, ritmo della respirazione Placato e rilassamento muscolare Progressivo”.
Queste abilità consentirebbero, attraverso la promozione di effetti psicofisiologici ottenuti rapidamente, di sedare l’emotività negativa e prevenire i comportamenti impulsivi, potenzialmente dannosi per sé e per gli altri. Una di queste strategie prevede la rapida riduzione della temperatura del volto, che viene ottenuta mediante immersione, o spruzzi, di acqua fredda o applicazione di impacchi freddi sul viso (area peri-orbitale).
Nel primo caso, all’immersione segue per riflesso automatico l’apnea; negli altri due si invita il soggetto a trattenere il fiato. Il tempo di applicazione è di circa 30 secondi; la temperatura dell’acqua non dovrebbe essere inferiore a 10 °C.
La tecnica mira alla moderazione dell’attivazione emotiva e fisica nell’arco temporale di pochi minuti, offrendo l’effetto terapeutico di rendere il disagio più tollerabile e rendendo la mente lucida per poter ricominciare a pensare padroneggiando meglio le strategie di reazione. In presenza di patologie cardiache, il soggetto viene invitato a chiedere un parere medico prima di avviare il training.
Nei mammiferi, compreso l’uomo, l’immersione del volto in acqua fredda provoca una serie di reazioni fisiologiche che vanno sotto il nome di “riflesso di immersione”: sospensione della respirazione, rallentamento della frequenza cardiaca, vasocostrizione periferica, aumento della perfusione al cuore e al cervello (organi particolarmente sensibili alla carenza di ossigeno), diminuzione del flusso arterioso ai muscoli, alla cute e ai visceri, graduale incremento della pressione arteriosa media.
Questi effetti producono sostanzialmente una riduzione fisiologica del consumo di ossigeno e del metabolismo da parte dell’organismo, funzionale alla sopravvivenza e alla prevenzione del danno da ipossia.
L’apnea riflessa, naturalmente, impedisce all’acqua di entrare nei polmoni, evitando l’annegamento. Esiste inoltre una proporzionalità inversa tra entità del riflesso e temperatura dell’acqua.
Studi in merito suggeriscono che il riflesso di immersione sia in realtà costituito dalla somma di tre riflessi neurali attivati perifericamente in modo distinto e poi integrati a livello centrale, che regolano la respirazione, il battito cardiaco e la pressione arteriosa.
L’acqua fredda stimola i recettori termici sia a livello della cute del volto (area paranasale soprattutto) sia a livello della mucosa nasale. Le afferenze nervose viaggiano attraverso il nervo trigemino (V nervo cranico), in particolare lungo la branca oftalmica, raggiungendo il suo nucleo sensitivo, che si estende dal midollo allungato (nucleo spinale del trigemino) fino al mesencefalo.
Da qui, attraverso sinapsi, altri neuroni dell’arco riflesso raggiungono i centri regolatori del midollo allungato, o bulbo. A questo livello, nei centri vasomotori respiratori e cardiaci, le afferenze attivano le efferenze neurovegetative.
Queste ultime viaggiano sia attraverso il sistema parasimpatico (nervo vago) che ortosimpatico, inducendo bradicardia, vasocostrizione arteriosa periferica, apnea.
Altre vie nervose contribuiscono alla risposta complessiva del riflesso di immersione, a partire dalla stimolazione dei chemocettori carotidei e aortici, sensibili alle variazioni di pressione parziale dell’ossigeno: quando quest’ultima scende sotto una certa soglia, a causa dell’apnea, essi inviano un segnale afferente via nervo glossofaringeo e vago, che una volta integrato a livello del bulbo (centri vasomotori), potenzia la risposta efferente ortosimpatica di vasocostrizione periferica.
Fatte queste considerazioni anatomo-funzionali, appare chiaro come il riflesso di immersione sia sostanzialmente una modalità di attivazione del riflesso trigemino-cardiaco. Secondo alcuni autori, il riflesso può essere potenziato rimanendo seduti e compiendo per 1-3 minuti degli atti respiratori profondi, prima di trattenere il fiato e immergere il volto nell’acqua fredda.
L’apnea volontaria, in effetti, può risultare sufficiente per elicitare il riflesso di immersione. Essa, pertanto, rappresenta sia uno stimolo (quando volontaria) che una risposta automatica indotta dallo stimolo acqua fredda (quando involontaria).
Considerando l’ambito clinico medico, inoltre, il riflesso di immersione è una delle possibili modalità di attivazione riflessa del tono parasimpatico che vanno sotto il nome di “manovre vagali”. Tra queste, vi sono la manovra di Valsalva, la manovra di attivazione del riflesso oculo-cardiaco e il massaggio del seno carotideo. Le manovre vagali, in particolare la stimolazione del seno carotideo, sono utilizzate per trattare in fase precoce la tachicardia parossistica sopra-ventricolare, un disturbo della conduzione cardiaca.
Il massaggio del seno carotideo e la manovra di Valsalva incrementano temporaneamente la pressione arteriosa a livello del seno stesso e dell’arco aortico; questo evento stimola i barocettori della parete, che per via riflessa aumentano il tono efferente parasimpatico al cuore, via nervo vago, con effetto finale di rallentamento della frequenza del battito cardiaco17,18.
Prima di esplicitare, almeno ipoteticamente, come il riflesso di immersione possa agire in senso regolatorio su una crisi emotiva, occorre aggiungere alcune ulteriori premesse nell’ambito della psicofisiologia.
Le emozioni sono correlate a reazioni psicofisiologiche, per mediazione del sistema nervoso autonomo1. L’emotività negativa implica una reazione anomala del sistema vegetativo, che a sua volta si può ripercuotere su variabili fisiologiche quali pressione arteriosa, frequenza cardiaca e sua variabilità, frequenza respiratoria, temperatura corporea, conduttanza cutanea, tono muscolare.
Per quanto riguarda la pressione arteriosa, la soppressione dell’espressione delle emozioni negative risulta essere correlata all’ipertensione.
Uno studio recente ha evidenziato che la presentazione di uno stimolo negativo modesto, rispetto ad uno stimolo neutro, provoca nei partecipanti una diminuzione iniziale della pressione arteriosa periferica e della frequenza cardiaca, mentre verso la fine dell’esposizione si assiste ad un rapido ritorno a valori normali; un simile andamento può essere attribuito all’influenza di fattori cognitivi quali attenzione, allerta, aspettativa e abituazione, mediati dal sistema nervoso autonomo.
Una revisione ha evidenziato che stimoli stressogeni nella vita quotidiana provocano reazioni cardiovascolari analoghe a quelle ottenute in laboratorio; inoltre, l’attribuzione soggettiva di intensità dello stress e delle emozioni negative secondarie a tali stimoli stressogeni reali correla con le risposte cardiovascolari registrate.
Un altro studio recente, condotto su oltre 7.000 individui, sottolinea che livelli moderati di emotività negativa, come quelli che si riscontrano nella vita quotidiana, non sono associati al rischio di ipertensione; lo stesso studio ipotizza che la correlazione tra ipertensione ed emotività valga invece per livelli molto alti o molto bassi di quest’ultima.
L’emotività negativa riduce la variabilità e la coerenza del ritmo cardiaco e ne incrementa la frequenza.
Per quanto riguarda la cute, esiste una correlazione tra situazione stressogena, diminuzione della temperatura e aumento della conduttanza.
Le caratteristiche della respirazione spontanea (frequenza, profondità) dipendono sia da richieste metaboliche che dalla condizione emotiva: ansia, rabbia e paura si associano ad una respirazione più rapida e meno profonda.
Non abbiamo rintracciato studi che indagassero nello specifico la relazione tra emotività negativa e tono muscolare.
Considerate queste premesse, ne deriva l’ipotesi sul meccanismo di azione del riflesso di immersione applicato in situazioni di intensa attivazione emotiva: i suoi effetti fisiologici compensano le risposte anomale a livello cardiocircolatorio, respiratorio, muscolare e viscerale, generando afferenze autonomiche in grado di regolare i centri superiori attori della disregolazione emotiva (amigdala, giro del cingolo anteriore, corteccia pre-frontale, in particolare il circuito limbico-orbito-frontale destro)43-45, modulando di conseguenza le efferenze autonomiche (via nervo vago e catena latero-vertebrale del simpatico).
Effetto finale cui si mira è la prevenzione o l’attenuazione delle espressioni comportamentali disfunzionali legate alla crisi emotiva.
Il riflesso di immersione presenta inoltre un aspetto interessante per le implicazioni cliniche nel contesto di un gruppo: la regolazione corticale.
Da un lato, abbiamo precedentemente esposto la funzione evocativa esercitata da un’apnea volontaria, il cui stimolo parte dalla corteccia motoria (area pre-frontale) e raggiunge i centri respiratori bulbari, per accentuare un’inspirazione (coinvolgendo sia il diaframma che i muscoli inspiratori accessori) e inibire l’espirazione successiva.
Dall’altro, è stata evidenziata la possibile influenza di fattori cognitivi ed emotivi, quali ad esempio la distrazione, che inibisce il riflesso, oppure la paura, che lo accentua.
Tra questi fattori, a nostro parere, può essere considerato anche l’effetto placebo. Una definizione di placebo è: “cambiamento del corpo o della mente che avviene come risultato del significato simbolico che viene attribuito a un evento o a un oggetto in ambito sanitario”.
Evento mentale cruciale nell’effetto placebo è l’aspettativa di miglioramento e di guarigione (aspettativa positiva), capace di scatenare una cascata di fenomeni cerebrali che a loro volta innescano risposte potenzialmente a qualsiasi livello somatico.
L’aspettativa del soggetto quindi, se ben modulata dal terapeuta, può influire in modo significativo sull’esito di un ttrattamento. Studi di risonanza magnetica funzionale hanno evidenziato il substrato neurofisiologico del placebo. L’aspettativa positiva è in grado di attivare i meccanismi di ricompensa, mediati dai circuiti dopaminergici del nucleo accumbens ipotalamico. I centri ipotalamici sono in grado di esercitare un controllo top-down sui centri troncoencefalici sia parasimpatici che ortosimpatici, influenzando le risposte autonomiche.
La strategia di regolazione mediata dalla tecnica di immersione viene appresa dal soggetto in un contesto terapeutico di gruppo, nel quale possono entrare in gioco fattori supplementari quali aspettativa, fiducia nel terapeuta, interazione sociale, condizionamento, identificazione, modellamento, rinforzo. A nostro parere questi elementi potrebbero modificare il riflesso.
In conclusione, riteniamo interessanti i principi su cui poggia la metodica dell’immersione in acqua fredda nell’ambito della DBT. Permangono aspetti da approfondire, soprattutto per quanto riguarda la sua reale portata clinica.
Sono opportuni studi che ne approfondiscano la dimostrazione di efficacia versus placebo oppure versus controlli non trattati in un contesto di intensa attivazione emotiva negativa, verificando l’esito sia di variabili soggettive (rabbia, disagio) sia oggettive (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria).
Dott. Rolle G., Dipartimento di Ricerca, SIOTEMA, Sartirana Lomellina (Pavia) http://www.siotema.it/
Dott.ssa Moreno Granados Humanitas Medical Care, Milano
Dott. Andrea Crocetti Scuola ASIPSE, Milano https://asipse.it/
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