Nel mondo occidentale il termine “stress” è, oggi, molto spesso inflazionato.
In una società sempre di corsa, provata dalla pandemia e dalle prospettive relative ai cambiamenti climatici, appare fondamentale porre una particolare attenzione alla salute mentale, anche passando attraverso un’accurata valutazione multidimensionale, che permetta di “misurare” i livelli di stress coniugando differenti metodi di indagine.
Focalizzarsi sul singolo e sulla multisfaccettata pluralità di fattori che concorrono nell’instaurarsi dello stress, rappresenta fondamentale punto di partenza per pianificare un intervento su misura.
Lo stress si configura come la complessa e multimodale risposta dell’organismo ad un evento percepito come problematico.
Il termine “stress”, da un punto di vista etimologico, rappresenta la forma contratta del latino “districtia”, che significa, letteralmente, “strizzata”.
Impiegato per la prima volta per indicare una pressione fisica in ingegneria, acquista il significato attuale grazie a fisiologo austriaco Hans Selye.
Quest’ultimo, infatti, nel 1936 lo descrisse come una risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso, nel delinearsi di un processo di adattamento al cambiamento dell’equilibrio omeostatico prodotto da uno stressor.
Selye, nell’ambito di alcuni esperimenti sugli ormoni sessuali dei ratti, notò che iniettando estratti di placenta ed ovaie sui roditori, si poteva osservare un ingrossamento della corteccia del surrene, una riduzione del volume del timo, della milza e dei gangli linfatici, la presenza di ulcere gastriche e duodenali. Infine riscontrò che, pur modificando la sostanza iniettata e ricorrendo alla formalina, si ottenevano le medesime risposte, così come di fronte a stimoli nocivi di varia natura, stati di infermità, eccesso di caldo e freddo, traumi fisici e psichici: ne concluse che si trattava di una risposta immunitaria, mediata dall’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, che egli stesso definì General Adaptation Syndrome (GAS): reazione adattiva per l’organismo, che attiva e mobilita risorse – fisiologiche e psicologiche – per fronteggiare qualsiasi stressor (Pruneti, 2017).
Da un punto di vista biologico, infatti, nella risposta da stress sono coinvolti due sistemi distinti.
La risposta di stress, con i suoi correlati sotto il profilo emozionale, cognitivo e comportamentale, rappresenta, quindi, una reazione fisiologica selezionata filogeneticamente e mantenuta nel corso dell’evoluzione poiché protettiva per l’organismo.
La sua “causa remota”, in chiave evoluzionistica darwiniana, riguarda proprio il fatto di essere primariamente finalizzata a favorire sopravvivenza e riproduzione.
Pertanto, lo stress non ha sempre una valenza negativa.
Occorre operare la fondamentale distinzione tra due tipi di stress:
Il distress può a propria volta essere:
Ancora una volta, centrale è, nell’instaurarsi della risposta da stress e nella sua eventuale cronicizzazione, oltre al perdurare dello stimolo, il significato che ciascuno di noi attribuisce allo stressor stesso, nonché la percezione circa la capacità soggettiva di farvi fronte efficacemente (senso di agency).
Ecco che, l’estrema complessità che caratterizza la risposta da stress, rende evidente l’importanza di
una valutazione multidimensionale, che consenta al clinico di prendere in considerazione numerosi
aspetti, al fine di strutturare un intervento personalizzato. La moltitudine di fattori di rischio e
causali, l’estrema variabilità del comportamento umano e la volatilità dei dati a disposizione,
rendono la diagnosi in ambito psicologico e psichiatrico assai più complessa rispetto a quella
strettamente medica. Un modello multidimensionale di assessment impone di valutare gli aspetti cognitivi, verbali, emozionali, comportamentali, motori e psicofisiologici. Pertanto, rappresenta un
processo di raccolta e analisi di informazioni provenienti da diversi canali, servendosi di metodi di indagine diversi tra loro.
Il colloquio clinico rappresenta lo strumento principe dello psicologo e dello psicoterapeuta, nonchè la cornice entro la quale è possibile pervenire ad una completa raccolta anamnestica, familiare, sociale e patologica, prossima e remota. Nel setting del colloquio acquista fondamentale importanza anche l’osservazione, da parte del clinico, della semeiotica, ovvero di elementi quali aspetto, postura, prossemica, eloquio, livello di attività (tremori, stereotipie, manierismi, contatto oculare), in grado di fornire, di per sé, informazioni di notevole rilievo (Pruneti, 2013).
E ‘inoltre auspicabile ottenere dati che non siano solo qualitativi, ma anche quantitativi, attraverso il ricorso a strumenti psicodiagnostici standardizzati. I cosiddetti test di stato consentono di rilevare, in primis, l’eventuale presenza di sintomi psicopatologici attuali (per esempio: ansia, depressione, somatizzazioni, ostilità…), configurandosi come una fotografia di come il soggetto “sta” in un determinato momento.
Sul versante complementare è possibile indagare, attraverso test di tratto, quelle che sono le caratteristiche più stabili che connotano la personalità dell’individuo.
L’utilizzo di questionari standardizzati è generalmente da preferire; tuttavia, in alcune situazioni (ad esempio in presenza di soggetti particolarmente difesi, oppure nel lavoro con i minori) può risultare utile anche il ricorso a test proiettivi (Rorschach, test di appercettività tematica, test carta e matita).
Come è noto, la personalità di ciascuno di noi emerge, durante l’infanzia, come frutto dell’interazione tra geni ed ambiente (“nature/nurture”), e si declina nel corso di tutta la vita in un pattern abituale di esperienza interiore e di comportamento.
L’epigenetica ci fornisce una soddisfacente spiegazione neurobiologica. Letteralmente, dal greco, “epigenetica” significa “sopra la genetica”, andando a definire qualcosa che si colloca al di sopra dei geni: cambiamenti epigenetici possono determinare una modifica del fenotipo, pur lasciando inalterato il genotipo (la sequenza di DNA dei nostri geni).
L’esposizione a fattori ambientali può, in altre parole, modificare l’espressione dei geni senza modificare la sequenza del DNA. Interessanti ricerche hanno dimostrato come, nei ratti, le variazioni naturali nelle cure materne alterano l’espressione dei geni che regolano le risposte comportamentali ed endocrine allo stress: nella prole che riceveva cure parentali di minore qualità (licking, grooming, arched back nursing), si osservavano maggiori livelli di ansia in diversi test comportamentali ed una maggiore attivazione dell’asse HPA, con un massiccio rilascio di corticosteroidi in fase di stress (Weaver, Cervoni, Champagne, 2004).
Ognuno di noi nasce con un “bagaglio”, precablato geneticamente, ma gli eventi di sono in grado di innestarvisi determinando differenti traiettorie, nel delinearsi della straordinaria unicità di ciascun individuo, che trova espressione nella sua personalità.
Per tale ragione, da essa discende la vulnerabilità, o meno, di ciascuno di noi allo stress ed allo sviluppo di psicopatologia. Vi può, ad esempio, essere un’ansia di tratto, oppure una maggiore predisposizione a sviluppare disturbi della sfera depressiva, una tendenza al rimuginio, al controllo, al perfezionismo.
La forza di impatto di uno stressor, quindi, non è mai oggettiva: stimoli della medesima entità possono elicitare reazioni molto dissimili in persone diverse. E’opportuno focalizzarsi, quindi, nella valutazione dello stress, anche sugli stili di coping, ovvero l’insieme degli schemi cognitivi e dei comportamenti che caratterizzano le modalità tipiche del soggetto di fronteggiare le situazioni vissute come problematiche. Questi dipendono a propria volta dalle risorse di coping che ciascuno possiede, che possono essere interne (stato di salute, tratti di personalità più o meno adattivi, hardiness, locus of control) ed esterne (supporto sociale, status e disponibilità economica).
Stili di coping disadattivi rendono più vulnerabili al distress ed alle conseguenze psicofisiche ad esso associate, al contrario stili di coping adattivi intervengono nel modulare le emozioni negative grazie al senso di agency che ne deriva.
Rifacendoci infine all’approccio psiconeuroendocimmunologico (PNEI), non si dovrebbe prescindere dal considerare l’indissolubile continuità mente/corpo che, come si è visto, risulta evidente nella risposta da stress e nell’instaurarsi di disturbi, fisici e psicologici, dovuti a stress cronico. Per tale ragione è possibile suggerire esami di laboratorio come il dosaggio del cortisolo, mediante prelievo ematico o tampone salivare, nonché inferire lo stato di attivazione del SNA attraverso la valutazione di alcuni indici psicofisiologici. Il Profilo Psicofisiologico di stress (PPF, Fuller, 1979), consente la rilevazione in continuo dei seguenti parametri: Elettromiogramma di superficie (sEMG), conduttanza cutanea (GSR/SCL/SCR), temperatura periferica (PT), frequenza e ampiezza respiratoria, frequenza cardiaca, intervallo inter-battito, variabilità cardiaca (HR/IBI/HRV), registrati su quattro fasi: adattamento iniziale, baseline a riposo, stress indotto, recupero. L’esame, della durata di circa venti minuti, incruento e scarsamente invasivo poiché prevede solo l’applicazione di alcune sonde ed elettrodi di superficie, deve essere effettuato all’interno di un setting idoneo, in condizioni di temperatura e umidità controllate, con luci soffuse al fine di favorire la distensione. E’necessario, inoltre, che la procedura sia svolta da operatori qualificati (psicologi o psicoterapeuti con una specifica formazione nel campo della in psicofisiologia clinica), in grado di regolare la comunicazione, verbale e non verbale, in funzione delle caratteristiche personali di ciascun individuo, di determinare la necessità eventuale di prolungare la fase di adattamento inziale, di interpretare correttamente i vari parametri in ogni fase della registrazione individuando eventuali artefatti.
In generale, un profilo globale di elevata attivazione, con incapacità di ripristino dei livelli basali, è caratteristico di disturbi legati alla sfera ansiosa e ad iperattivazione da stress. Al contrario, un riscontro di bassa attivazione e scarsa reattività agli stressor, si può osservare a fronte di disturbi depressivi ed ossessivi ed anoressia nervosa.
La valutazione psicofisiologica non è intendersi tout-court, ma rappresenta il tassello di un puzzle all’interno del complesso iter diagnostico, ed è necessario pertanto interpretarne i parametri in funzione di tutti gli altri elementi della valutazione.
Per esempio, si può avere il riscontro di un’iperattivazione fisiologica pur a fronte di un soggetto clinicamente depresso, nel possibile configurarsi di una condizione di esaurimento emotivo contestuale a cronica iperattivazione neurovegetativa, che richiede tuttavia particolare cautela nella somministrazione frettolosa di antidepressivi.
Infatti, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), configurandosi come stimolanti, sono talvolta in grado di favorire il fenomeno dell’activation, con un’accentuazione dell’ideazione suicidaria e del rischio che questa si traduca in effettivi tentativi di suicidio (Pruneti et al, 2016; Pruneti & Guidotti, 2023; Tulisiak et al., 2017). Ad esempio, alcuni interessanti risultati preliminari, all’interno del filone di studi sulla salute mentale in fase post- pandemica, hanno mostrato come, in presenza di soggetti con una sindrome ansioso-depressiva, elevati livelli di conduttanza cutanea si associano ad una maggiore ideazione suicidaria (Pruneti, Fiduccia, & Guidotti, 2023).
In una società provata dagli strascichi della pandemia si è assistito, in tutto il mondo, ad un drammatico aumento dei livelli di distress, nel delinearsi di un incremento significativo, nella popolazione generale, di ansia, depressione, somatizzazioni, disturbo post-traumatico da stress (Cénat et al, 2022), e altresì di rischio suicidario (Zhu, Li, & Xu, 2022).
La pandemia, innestandosi sul terreno fertile delle dinamiche che caratterizzano la società odierna, ha rappresentato, verosimilmente, un detonatore nella slatentizzazione di numerosi disturbi stress- correlati. Sullo sfondo troviamo richieste sempre maggiori da parte del mondo del lavoro e scolastico-accademico, dovute alle spinte competitive che orientano verso un’ideale di eccellenza perseguibile solo attraverso ritmi di studio e di lavoro serrati, da parte della società, acuite dall’avvento dei social media che impongono di ostentare vite costantemente ineccepibili, ma anche da parte di noi stessi, in particolare quando sussistono determinati pattern di personalità improntati all’ossessiva ricerca del perfezionismo.
Pertanto, a fronte della dilagante emergenza attuale nell’ambito della salute mentale, un modello di valutazione multidimensionale dello stress può, e anzi dovrebbe, essere esteso massivamente a svariati contesti, da quello scolastico e accademico, a quello lavorativo, in ottica di prevenzione e diagnosi.
Il fil rouge dovrebbe, però, sempre essere il focus sul singolo, sulla sua storia, le sue caratteristiche, la natura e la complessità del problema, sul grado di motivazione e compliance. Solo in questo modo saremo in grado di cogliere l’estrema complessità e l’unicità di ciascun individuo all’interno del proprio contesto, di individuarne e i bisogni, costruire una buona relazione terapeutica ed un intervento efficace. Un antico proverbio marchigiano, diffuso in ambito sartoriale, recita: “Cento misure, un taglio solo”. Possiamo paragonare l’attività del clinico a quella di un buon sarto, in grado, cioè, di strutturare un intervento che sia davvero “tailored”: cucito su misura, sul singolo, sulla scorta di un’accurata valutazione multidimensionale.
Psiologa Alice Fiduccia, psicologa con formazione in ambito clinico e forense.
Laureata con lode in Psicobiologia e Neuroscienze cognitive presso l’Università di Parma, mi occupo oggi di ricerca e valutazione multidimensionale, presso i Laboratori di Psicologia Clinica, Psicofisiologia Clinica e Neuropsicologia Clinica del medesimo Ateneo, di cui è responsabile Scientifico il Professor Carlo Pruneti. Perfezionata in Rilassamento Muscolare Progressivo e Biofeedback, possiedo una certificazione First Level-Biofeedback rilasciata da Biofeedback Federation of Europe (BFE). Ho completato, infine, un Master in Psicopatologia Forense, a Roma, a cura dell’Accademia Internazionale delle Scienze Forensi (AISF), con cui tutt’ora collaboro nell’ambito dell’analisi di fascicoli giudiziari.ù
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